Kerr era seduto ad un tavolo e si guardava le mani. Mentre senza nessun motivo spostava l’indice su e giù facendolo toccare sul legno nero e freddo, si domandava sbigottito una serie di cose. La prima cosa che Kerr si domandava è: come faccio a muovere il dito? Gli sembrava che la soluzione a questo problema, la risposta a questa domanda fosse del tutto ovvia, ma più ci pensava e più la risposta giusta si allontanava. Esattamente come quando ci ripetiamo una parola nella testa finché perde di significato. Le convenzioni penetrano talmente in noi che in ultima analisi ci sembrano discendere da qualcosa di innato e naturale. Il movimento assurdo di quel dito che continuava ad intervalli regolari a toccare il tavolo impresse in Kerr un pensiero che riusciva a raggiungere vari livelli di assurdità. Gli sembrava di mangiare un numero negativo di mele, o comunque di stare facendo qualcosa di questo ordine. Quello che lo opprimeva nell’intimo era il fatto che lui potesse decidere autonomamente di muovere una parte del proprio corpo in modo così perfetto. Ma lui, chi era lui? Non riusciva a far combaciare la sua figura con quella di ogni altra persona, perché a lui sembrava che la vita intera si sintetizzasse nella sua. Non riusciva a concepire niente al di fuori di lui, e questo contrastava barbaramente con un fatto molto semplice: lui non era l’unica cosa al mondo. C’erano milioni di altre cose a diversi livelli, ognuna con una vita propria. Lui doveva essere dentro quelle cose, perché non c’era altra spiegazione per la vita – o la non-vita – che era infusa in loro. Eppure ne era fuori, e questo lo poteva provare a se stesso dimostrandosi che non conosceva la vita e la morte e gli amori e le delusioni di tutte le persone del pianeta, conosceva a mala pena la sua vita, e non riusciva a vedere altro, in quel momento, che una stanza con un tavolo, due mensole, qualche penna e altri oggetti d’ordinanza. Il movimento di quel dito lo sbalordiva ad ogni nuovo contatto con la superficie piatta del tavolo, e non riusciva a capacitarsene. Gli sembrava che gli stessero arrivando addosso cataclismi giganteschi, tutte le cose più assurde immaginabili turbinavano nella sua testa, e ciò che le accomunava era un senso di paura per non sapersi spiegare in modo convincente i suoi pensieri.
L'hai scritto tu?
RispondiEliminaSì.. se cito riporto l'autore!
RispondiEliminaBeh, complimenti allora, è molto carino!
RispondiEliminaOk grazie :)
RispondiEliminasottoscrivo. E' davvero bello. Mi piace quando dici, lui doveva essere dentro quelle cose, perchè non c'era altra spiegazione per la vita, o la non vita, che era infusa in loro.
RispondiEliminaMi piace questa idea di noi essere viventi, tutti membri o pezzi di puzzle di un pezzo unico, la vita. Intangibile ma ben solida, lì da qualche parte. Tutta una eppure tutta rotta, tanti pezzi quanti noi tutti separati. E mi piace come parli della vita come di questa cosa misteriosa che ha vita propria, che ci fa muovere il dito, ma che possiamo controllare, muovendo un dito.
Sì, e ho vissuto questa cosa, ma non credo di essere riuscito ad esprimere tutta l'assurdità che volevo. Quando faccio queste riflessioni ho sempre un'accelerazione cardiaca e mi terrorizzo. Bisogna che smetta di pensarci per calmarmi.
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